TERRE GRECANICHE, TERRE DI VINI
La viticoltura nella Magna Graecia è stata probabilmente introdotta dalle popolazioni pelagiche guidate da Enotro, attorno al 1650 a. C., che indicarono l’estremità della penisola italiana con il nome di Enotria: la terra del vino. Tuttavia, fu con i Romani che la viticultura conobbe un forte incremento, protrattosi fino al VI sec. d.C.
I resti archeologici rinvenuti sulla costa ionica reggina sottendono abbondante produzione di vino, tale al punto da far supporre l’esistenza di vere e proprie filiere commerciali. Imbottigliato in apposite anfore vinarie (anfore Keay LII), realizzate localmente, il vino della Calabria Greca raggiungeva nel Tardo Antico mete lontane del Mediterraneo. Soprattutto Roma, dove il Monte Testaccio conserva ancora moltissimi resti delle anfore prodotte nel reggino meridionale con lo specifico scopo di esportare vino.
La vocazione alla viticoltura, nota nel V sec. d.C. anche a Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, trova riscontri nel considerevole numero di palmenti altomedievali, scavati nella roccia, soprattutto nell’area di Ferruzzano, che affiorano a cielo aperto, usati fino a tempi recenti. Il palmento tipo era costituito da due vasche scavate nella roccia arenaria, una superiore (buttìscu) ed una inferiore (pinàci), comunicanti attraverso un foro. L’uva versata nel buttìscu, il cui foro veniva otturato con argilla, veniva pigiata con i piedi e lasciata riposare lì per un giorno ed una notte; quindi, eliminato il tappo, si lasciava defluire il mosto nel pinàci.
DALLA TERRA E DELL’UVA
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